venerdì 23 novembre 2007

I fumatori di Yalta

Nel febbraio 1945 la seconda guerra mondiale si avvicinava al suo epilogo nello scenario europeo. Nordamericani e inglesi si aprivano passo in Francia e risalivano l’Italia, mentre che il generale Zhukov, dall’est, arrivava a quaranta miglie da Berlino. A Yalta si riunirono i tre capi alleati, Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill e Joseph Stalin. I tre erano fumatori: Roosevelt fumava sigarette, Churchill fumava sigari e Stalin fumava in pipa.

La questione può sembrare aneddotica, perfino banale. Ma comincia a incuriosire quando si scopre che i due capi nazifascisti in procinto di essere sconfitti, Adolf Hitler e Benito Mussolini, erano in cambio non fumatori, anzi, autentici fanatici antifumo.


La seconda guerra mondiale fu combattuta da decine di milioni di persone fortemente motivate, disposte a dare la propria vita per una causa. Questo forte contenuto ideale non è facile di trovare; chi ne dubiti chieda ai nordamericani com’è finita in Vietnam, in Somalia o in Irak. Qual’era la motivazione dei combattenti alleati? La libertà e la democrazia, le due cose intese in un senso molto concreto. Per libertà s’intendeva il diritto di disporre della propria esistenza, di affermare la propria identità, nel terreno politico, sociale e culturale. Ma anche e soprattutto il diritto di scegliere o di inventare il proprio stile di vita, senza interferenze dello Stato. La democrazia era il logico complemento di questa libertà: se abbiamo il diritto di essere diversi non possiamo essere governati come se facesimo parte di un’unicità organica. La nostra forma di governo dev’essere una “camera di compensazione” tra diversità.

Che cosa motivava i combattenti nazifascisti? I principi quasi simetricamente opposti. L’individualità sciolta nell’essere collettivo di uno Stato elevato ad unico soggetto della vita e della storia, incarnato nella persona del Führer. La politica, la società e la cultura ridotte ad attributi di questo soggetto unico universale. Il totalitarismo come forma istituzionale che considera criminale ogni diversità.


Lo stile di vita era uno dei campi principali di questa battaglia tra principi irreconciliabili. Per i nazisti lo stile di vita doveva essere uno solo, quello preconizzato dallo Stato: “Il nostro corpo appartiene alla Nazione, il nostro corpo appartiene al Führer, abbiamo il dovere di essere sani” (Robert Proctor, The nazi war on Cancer, cap. 5). Questo principio legittimava un grande numero di abusi e crimini: la reclusione e l’assassinio di massa degli ebrei, che il regime aveva trasformato nel paradigma della diversità, degli zingari, degli omosessuali, dei socialisti e i comunisti, e di centinaia di altre minoranze indesiderate. Altri, come i malati mentali, gli alcoolisti cronici e i portatori di mali considerati ereditari, furono sterilizzati.

Il nazismo iniziò la sua campagna contro i fumatori nel 1933, appena ebbe preso il potere (e trent’anni prima dell’attuale campagna nordamericana). La prima fase fu teorica e propagandistica, per mezzo di ricerche promosse dal regime e pubblicità terrorizzanti, molte delle quali legavano il vizio di fumare con la condizione di ebreo. Arrivò alla fase pratica nel 1939, con divieti parziali di fumare in luoghi pubblici come gli uffici di governo, negli ospedali e nei luoghi di lavoro, più la creazione di aree differenziate nei ristoranti e la proibizione di fumare con la divisa per i poliziotti e gli SS. Nel 1940 furono stabilite carrozze speciali per non fumatori nelle ferrovie. Solo nel 1943 fu introdotta la proibizione di fumare per i minori di 18 anni, e nel 1944 fu proibito fumare negli autobus e nel Metrò. Ma quello stesso anno la campagna perse forza, la guerra andava male, e per sostenere la morale dei soldati furono inviate razioni di sigarette e di alcoolici al fronte, in evidente contraddizione con la teoria delle virtù combattive dell’ario salutista. La guerra fu persa, e con la guerra finì l’antitabachismo militante. Vinsero gli ebrei, i neri, i fumatori ed altri perseguitati…

Il fatto è che questa fu la prima campagna del proibizionismo antitabacco nel mondo. I pseudo-ricercatori nazisti precedettero ampiamente ai suoi ereditieri nordamericani degli anni 50; gli organizzatori e pubblicitari nazisti anticiparono la quasi totalità dei temi e delle procedure dei proibizionisti degli ultimi anni, includendo il “fumo passivo” o “di seconda mano” (Passivrauchen, termine inventato dal medico nazista Fritz Lickint).

Obra citada: Robert N. Proctor, The nazi War on Cancer, Princeton U. Press, 1999.

lunedì 8 gennaio 2007

Sono un morto statistico



I messaggi proibizionisti del movimento anti-fumo sono grotteschi, a volte involontariamente comici. Ad esempio quando contabilizzano in anni di riduzione del tempo di vita i danni del tabacco. Dai loro calcoli si deduce che io dovrei essere morto, così come i milioni di persone che fumano e vivono contenti. Anzi, non dovrebbero esserci fumatori vivi di più di sessanta anni. Mi guardo intorno e scopro centinaia di casi di fumatori di più di 70, 80 e 90 anni che vivono tranquillamente. Tento di leggere la propaganda proibizionista con la maggiore oggettività possibile, ma è chiaro che ci dicono una bugia. Confondono intenzionalmente un rischio statistico con un rischio certo.


Viviamo immersi in rischi statistici, o quel che è la stessa cosa, accerchiati da probabilità infauste. Possiamo morire fulminati da un elettrodomestico (la probabilità statistica è sorprendentemente alta) schiacciati da un camion nell’autostrada, assassinati da una cura sbagliata o da un contagio acquisito in un ospedale, travolti dallo shock provocato dalla puntura di un ape, colpiti da un meteorite in caduta libera, calpestati da un cervo in fuga, e tante altre cause di morte, ognuna delle quali ha una probabilità statistica che può essere calcolata.
Per evitare tutti i rischi ci si dovrebbe mettere in ibernazione in una camera blindata, e anche così… Sembra che il rischio di morte e connaturale alla vita, e che l’unica soluzione è convivere con una grande quantità di pericoli, prendendo particolari precauzioni solo quando il rischio statistico è particolarmente alto.


Lo è nel caso del tabacco? Anche se prendiamo per buoni i dati dei proibizionisti (e non lo sono) dobbiamo concludere che non è particolarmente alto: la prossima volta chieda al propagandista antitabacco che gli calcoli il rischio, non in anni in meno, ma in possibilità che l’evento accada ad un particolare individuo. Vedrà ché sorpresa. Ovviamente una persona sensata direbbe: “dipende”, e farebbe il calcolo per frange di età, e per condizioni di salute. Se lei ha più di sessanta anni e disturbi cardiorespiratori il suo rischio e più alto, se lei ha meno di sessanta e una salute ragionevolmente buona il suo rischio e molto basso, ad esempio.
Certo che tutti questi distinguo sono molto meno efficaci che la scritta “Il fumo uccide” nei pacchetti di sigarette. Se i propagandisti antibacco avessero l’obbligo di scrivere sul pacchetto di sigarette, non solo le controindicazioni, ma anche i limiti, i condizionali, le controversie sui dati e la loro credibilità servirebbe piuttosto un lenzuolo. E non produrrebbe il bel effetto che i suddetti propagandisti vogliono ottenere: impaurire a morte la gente.

domenica 17 dicembre 2006

Messaggi di morte

Nel mio pacchetto di tabacco c’è un’etichetta bianca nella quale è scritto in grandi caratteri neri che il fumare causa la morte; ricevo lo stesso messaggio attraverso i mass media, in tutte le varianti possibili e tutti i giorni. Suponiamo che voglio fare una riparazione elettrica, e che allargo la mano per toccare un cavo. Se qualcuno mi dice “¡Non toccare quel cavo, ha la corrente e ti può amazzare!” io glielo ringrazio. Ma se è mezz’ora che manipolo quel cavo lo stesso messaggio mi causa un effetto diverso. Osservo l’altro estremo del cavo per vedere se qualcuno, forse la stessa persona che mi avverte, l’ha collegato alla rete elettrica, torno a toccare il cavo e niente. A quel punto chiedo più informazioni all’avvertitore non richiesto; gli chiedo ad esempio come sa che mi trovo di fronte un rischio imminente. Se quello mi risponde che, dal punto di vista statistico, il toccare cavi elettrici causa la morte nel 70% dei casi, concludo che è uno scimunito o che gli piace fare degli scherzi di cattivo gusto. Ovviamente non mi convince.

Questa è la reazione del fumatore nei confronti dell’interminabile (e costosa) campagna antitabacco: incredulità, stupore e finalmente il sospetto di essere vittima di uno scherzo crudele. Sa che non è morto, nonostante che fuma da molto tempo, e questo è il suo primo criterio di verità. Si guarda un po’ intorno, tra gli amici, conoscenti e parenti. Scopre che molti tra questi fumano o hanno fumato, senza cadere morti, e questo è il suo secondo criterio di verità. Infine riflette sulla costruzione della frase, e scopre che lì si trova l’inghippo. Sul pachetto dovrebbe essere scritto “Alcuni ricercatori sostengono che il fumare può aumentare il rischio di contrarre delle malattie”.


Per fare le cose per bene dovrebbe esserci anche uno spazio destinato ai ricercatori che sostengono la tesi contraria, ma è troppo chiedere in questi tempi, nei quali ti dicono che mangiare carne fa male, e poi che fa benissimo, e poi di nuovo che fa male, e poi la stessa danza di affermazioni contrastanti sulle carote, la margarina, il burro, il vino, la birra e centinaia di altri prodotti di consumo. Senza che nessuno si preoccupi di organizzare i bombardamenti informativi nel quadro di un dibattito scientifico razionale. La forma ingannevole della formula “il fumo uccide” è quello che mi ha fatto dubitare sulla serietà scientifica del proibizionismo antitabacco. È un trucco degno di un propagandista ideologicamente motivato, di un attivista che disprezza la verità e tiene solo alla sua causa, forse tipica anche di certi pubblicitari di assalto. Non di certo l’affermazione di uno scienziato.

sabato 16 dicembre 2006

Una vita in fumo

Ho 67 anni e fumo da quando avevo 18, quasi mezzo secolo di tabacco. Sono in buona salute e in piena attività. Posso sperare di vivere altri dieci o quindici anni, ovviamente fumando mentre possa farlo. Fumo perché voglio farlo, perché è parte della mia cultura e della mia identità. Leggo e scrivo mentre fumo, bevo caffè e ascolto musica, e passo così la parte maggiore della giornata, ozioso e produttivo nello stesso tempo. Fumo perché questa è la mia vita e il mio corpo. Fumo perché il tabacco, assieme al libro, alla carta bianca, al caffè, alla musica, al computer, al vino rosso, ai buoni film, alla bicicleta e ai sentieri sterrati nella pianura fanno di me chi sono.
“E dopo degli ottanta?”, mi dice il signore con il dittino in alto. Dopo degli ottanta la palida mietitrice ci falcerà uno dietro l’altro finché non rimanga nessuno. Ricchi, poveri, scemi, intelligenti, santi, peccatori, fumatori e non fumatori, e perfino i signori con il dittino in alto. Vivere conduce alla morte, ma lo fa lentamente, e nel frattempo… che meraviglia, amici, vivere intensamente, consumare questa piccola fiamma che siamo a dovere, producendo una luce intensa e ferma.


“Scandaloso!”, insiste quello del dittino. “Una vita di dissipazione e si mostra ancora orgoglioso”. È significativo che questo genere di moralista usi come sinonimo di vizio il verbo “dissipare”, che significa “spreccare, sciupare”, “svanire, dissolvere”, ma anche “svaporare, risolversi in vapori”, come il fumo di tabacco, appunto. La sua è una filosofia del risparmio e dell’avarizia: spendere è peccato, ritenere è virtù. Persone sifatte fanno bene a non fumare; se lo facessero si rifiuterebbero a espellere il fumo, e finirebbero scoppiando come un rospo.
Quando di vivere si parla spendere è avere; il baccio dato, la parola donata, l’energia consumata arrichiscono invece di impoverire. Niente arricchisce più che spendere senza aspettarsi contropartite, senza contabilità di entrate e di uscite. Il bene regalato si dissipa come il fumo del tabacco, ma ci arricchisce perché arricchisce la rete di umane conessioni nella quale viviamo. In ogni caso questa rete ci da la speranza di vincere la morte, di vivere ancora negli altri. Quando la nostra vita sia finita i nostri doni rimarranno, mentre che il corpo che il salutista ha coltivato morirà con lui. Il sudario non ha tasche, ma neanche ha specchi.