domenica 17 dicembre 2006

Messaggi di morte

Nel mio pacchetto di tabacco c’è un’etichetta bianca nella quale è scritto in grandi caratteri neri che il fumare causa la morte; ricevo lo stesso messaggio attraverso i mass media, in tutte le varianti possibili e tutti i giorni. Suponiamo che voglio fare una riparazione elettrica, e che allargo la mano per toccare un cavo. Se qualcuno mi dice “¡Non toccare quel cavo, ha la corrente e ti può amazzare!” io glielo ringrazio. Ma se è mezz’ora che manipolo quel cavo lo stesso messaggio mi causa un effetto diverso. Osservo l’altro estremo del cavo per vedere se qualcuno, forse la stessa persona che mi avverte, l’ha collegato alla rete elettrica, torno a toccare il cavo e niente. A quel punto chiedo più informazioni all’avvertitore non richiesto; gli chiedo ad esempio come sa che mi trovo di fronte un rischio imminente. Se quello mi risponde che, dal punto di vista statistico, il toccare cavi elettrici causa la morte nel 70% dei casi, concludo che è uno scimunito o che gli piace fare degli scherzi di cattivo gusto. Ovviamente non mi convince.

Questa è la reazione del fumatore nei confronti dell’interminabile (e costosa) campagna antitabacco: incredulità, stupore e finalmente il sospetto di essere vittima di uno scherzo crudele. Sa che non è morto, nonostante che fuma da molto tempo, e questo è il suo primo criterio di verità. Si guarda un po’ intorno, tra gli amici, conoscenti e parenti. Scopre che molti tra questi fumano o hanno fumato, senza cadere morti, e questo è il suo secondo criterio di verità. Infine riflette sulla costruzione della frase, e scopre che lì si trova l’inghippo. Sul pachetto dovrebbe essere scritto “Alcuni ricercatori sostengono che il fumare può aumentare il rischio di contrarre delle malattie”.


Per fare le cose per bene dovrebbe esserci anche uno spazio destinato ai ricercatori che sostengono la tesi contraria, ma è troppo chiedere in questi tempi, nei quali ti dicono che mangiare carne fa male, e poi che fa benissimo, e poi di nuovo che fa male, e poi la stessa danza di affermazioni contrastanti sulle carote, la margarina, il burro, il vino, la birra e centinaia di altri prodotti di consumo. Senza che nessuno si preoccupi di organizzare i bombardamenti informativi nel quadro di un dibattito scientifico razionale. La forma ingannevole della formula “il fumo uccide” è quello che mi ha fatto dubitare sulla serietà scientifica del proibizionismo antitabacco. È un trucco degno di un propagandista ideologicamente motivato, di un attivista che disprezza la verità e tiene solo alla sua causa, forse tipica anche di certi pubblicitari di assalto. Non di certo l’affermazione di uno scienziato.

sabato 16 dicembre 2006

Una vita in fumo

Ho 67 anni e fumo da quando avevo 18, quasi mezzo secolo di tabacco. Sono in buona salute e in piena attività. Posso sperare di vivere altri dieci o quindici anni, ovviamente fumando mentre possa farlo. Fumo perché voglio farlo, perché è parte della mia cultura e della mia identità. Leggo e scrivo mentre fumo, bevo caffè e ascolto musica, e passo così la parte maggiore della giornata, ozioso e produttivo nello stesso tempo. Fumo perché questa è la mia vita e il mio corpo. Fumo perché il tabacco, assieme al libro, alla carta bianca, al caffè, alla musica, al computer, al vino rosso, ai buoni film, alla bicicleta e ai sentieri sterrati nella pianura fanno di me chi sono.
“E dopo degli ottanta?”, mi dice il signore con il dittino in alto. Dopo degli ottanta la palida mietitrice ci falcerà uno dietro l’altro finché non rimanga nessuno. Ricchi, poveri, scemi, intelligenti, santi, peccatori, fumatori e non fumatori, e perfino i signori con il dittino in alto. Vivere conduce alla morte, ma lo fa lentamente, e nel frattempo… che meraviglia, amici, vivere intensamente, consumare questa piccola fiamma che siamo a dovere, producendo una luce intensa e ferma.


“Scandaloso!”, insiste quello del dittino. “Una vita di dissipazione e si mostra ancora orgoglioso”. È significativo che questo genere di moralista usi come sinonimo di vizio il verbo “dissipare”, che significa “spreccare, sciupare”, “svanire, dissolvere”, ma anche “svaporare, risolversi in vapori”, come il fumo di tabacco, appunto. La sua è una filosofia del risparmio e dell’avarizia: spendere è peccato, ritenere è virtù. Persone sifatte fanno bene a non fumare; se lo facessero si rifiuterebbero a espellere il fumo, e finirebbero scoppiando come un rospo.
Quando di vivere si parla spendere è avere; il baccio dato, la parola donata, l’energia consumata arrichiscono invece di impoverire. Niente arricchisce più che spendere senza aspettarsi contropartite, senza contabilità di entrate e di uscite. Il bene regalato si dissipa come il fumo del tabacco, ma ci arricchisce perché arricchisce la rete di umane conessioni nella quale viviamo. In ogni caso questa rete ci da la speranza di vincere la morte, di vivere ancora negli altri. Quando la nostra vita sia finita i nostri doni rimarranno, mentre che il corpo che il salutista ha coltivato morirà con lui. Il sudario non ha tasche, ma neanche ha specchi.