La questione può sembrare aneddotica, perfino banale. Ma comincia a incuriosire quando si scopre che i due capi nazifascisti in procinto di essere sconfitti, Adolf Hitler e Benito Mussolini, erano in cambio non fumatori, anzi, autentici fanatici antifumo.
La seconda guerra mondiale fu combattuta da decine di milioni di persone fortemente motivate, disposte a dare la propria vita per una causa. Questo forte contenuto ideale non è facile di trovare; chi ne dubiti chieda ai nordamericani com’è finita in Vietnam, in Somalia o in Irak. Qual’era la motivazione dei combattenti alleati? La libertà e la democrazia, le due cose intese in un senso molto concreto. Per libertà s’intendeva il diritto di disporre della propria esistenza, di affermare la propria identità, nel terreno politico, sociale e culturale. Ma anche e soprattutto il diritto di scegliere o di inventare il proprio stile di vita, senza interferenze dello Stato. La democrazia era il logico complemento di questa libertà: se abbiamo il diritto di essere diversi non possiamo essere governati come se facesimo parte di un’unicità organica. La nostra forma di governo dev’essere una “camera di compensazione” tra diversità.
Che cosa motivava i combattenti nazifascisti? I principi quasi simetricamente opposti. L’individualità sciolta nell’essere collettivo di uno Stato elevato ad unico soggetto della vita e della storia, incarnato nella persona del Führer. La politica, la società e la cultura ridotte ad attributi di questo soggetto unico universale. Il totalitarismo come forma istituzionale che considera criminale ogni diversità.
Lo stile di vita era uno dei campi principali di questa battaglia tra principi irreconciliabili. Per i nazisti lo stile di vita doveva essere uno solo, quello preconizzato dallo Stato: “Il nostro corpo appartiene alla Nazione, il nostro corpo appartiene al Führer, abbiamo il dovere di essere sani” (Robert Proctor, The nazi war on Cancer, cap. 5). Questo principio legittimava un grande numero di abusi e crimini: la reclusione e l’assassinio di massa degli ebrei, che il regime aveva trasformato nel paradigma della diversità, degli zingari, degli omosessuali, dei socialisti e i comunisti, e di centinaia di altre minoranze indesiderate. Altri, come i malati mentali, gli alcoolisti cronici e i portatori di mali considerati ereditari, furono sterilizzati.
Il nazismo iniziò la sua campagna contro i fumatori nel 1933, appena ebbe preso il potere (e trent’anni prima dell’attuale campagna nordamericana). La prima fase fu teorica e propagandistica, per mezzo di ricerche promosse dal regime e pubblicità terrorizzanti, molte delle quali legavano il vizio di fumare con la condizione di ebreo. Arrivò alla fase pratica nel 1939, con divieti parziali di fumare in luoghi pubblici come gli uffici di governo, negli ospedali e nei luoghi di lavoro, più la creazione di aree differenziate nei ristoranti e la proibizione di fumare con la divisa per i poliziotti e gli SS. Nel 1940 furono stabilite carrozze speciali per non fumatori nelle ferrovie. Solo nel 1943 fu introdotta la proibizione di fumare per i minori di 18 anni, e nel 1944 fu proibito fumare negli autobus e nel Metrò. Ma quello stesso anno la campagna perse forza, la guerra andava male, e per sostenere la morale dei soldati furono inviate razioni di sigarette e di alcoolici al fronte, in evidente contraddizione con la teoria delle virtù combattive dell’ario salutista. La guerra fu persa, e con la guerra finì l’antitabachismo militante. Vinsero gli ebrei, i neri, i fumatori ed altri perseguitati…
Il fatto è che questa fu la prima campagna del proibizionismo antitabacco nel mondo. I pseudo-ricercatori nazisti precedettero ampiamente ai suoi ereditieri nordamericani degli anni 50; gli organizzatori e pubblicitari nazisti anticiparono la quasi totalità dei temi e delle procedure dei proibizionisti degli ultimi anni, includendo il “fumo passivo” o “di seconda mano” (Passivrauchen, termine inventato dal medico nazista Fritz Lickint).
Obra citada: Robert N. Proctor, The nazi War on Cancer, Princeton U. Press, 1999.